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AL MADINA, ROY PACI, CAFISO e I TINTURIA

RECENSIONI

Al Madina, Roy Paci, Cafiso, i Tinturia e la sfida dei parkeriani di Sicilia.
 
Il gruppo si chiama Al Madina, ed è l’ultimo avvenimento della scena musicale siciliana.


I nomi noti sono tanti, da Roy Paci ai Tinturia, dai catanesi Dounia al parkeriano Francesco Cafiso, ai gruppi che Fiorello tira fuori a “Viva Radio 2”.
Una tradizione parallela a quella del pop italiano, ma non provinciale, parrocchiale piuttosto.
Il gruppo si chiama Al Madina e il nome è palermitano, in arabo la medina è la città, e in Sicilia la città è Palermo.
Al piano, chitarra e fisarmonica Rosamaria Enea, alla voce, violino e percussioni Costanza Licata.
Al premio Recanati, Costanza ha messo in scena una “Scialata”, il vociare dei vicoli che ha una cadenza di ballo. Una signora presente ha notato una somiglianza col rock’n’roll e si è lamentata che non fosse disponibile la trascrizione del testo. Ma la trascrizione era impossibile perché nelle Scialate non ci sono parole, solo suoni, al massimo apostrofi, tipo “veni cca acchjiana ‘ni mia”, vieni da me, che ti faccio vedere io. Come chiedere il testo di un canto scat di Louis Armstrong, insomma. Se chiedi a Costanza di fare un po’ di nomi di tradizione e formazione, lei a parte Rosa Balistreri non sa o non dice. Dovrebbe citare i canti di carcere e mafia, o quelli dei rais delle tonnare, ma sono tutti anonimi.
Costanza Licata è figlia di Salvo Licata, il giornalista dell’Ora di Palermo, poeta e drammaturgo di cronaca palermitana. Nato panettiere a Resuttana, appellato da ragazzino “Salvucciu ‘u foddi”, salvatore il pazzo, per le sue velleità artistiche, mise in scena le storie di nera, come quella di Bambulé, una prostituta e cantante di palchetti che si innamora di un marinaio e finisce uccisa dal pappone. Una storia raccontata attraverso l’anima della morta comparsa in forma di rana.
Costanza è cresciuta con questa Palermo nera in casa, e con il padre che fermava i carrettieri, li invitava a pranzo e registrava i loro canti.
Il primo disco è stato registrato nel 2004, titolo: “Palermo…Palermo tu”.
E lo stile è coerente con la Palermo “un po’ champs élisées e un po’ Beirut”.
E le Al Madina sono tornate alla Palermo dei vicoli con la colonna sonora di “Sempre uniti”, una fiction, anzi una “docu-soap”, una telenovela-documentario che va in onda su Raitre (prima puntata giovedì scorso, la seconda giovedì prossimo, ore 23,55).
La storia finzione della famiglia Bertolino che abita al mercato del Capo, uno dei tre mercati cittadini insieme a quelli di Ballarò e della Vuccirìa.
La vita e i problemi sono quelli classici: carcere, disoccupazione, financo la “dispersione scolastica”. Lo sguardo della regista Rosita Bonanno, che per cinque mesi ha convissuto con la famiglia Bertolino,
Il film si apre con il pater familias, Salvatore che si fa smaltare le unghie dalla figlia Teresa, nel giorno del matrimonio di lei. La storia di Salvatore è stata per anni un entrare e uscire dal carcere. Era uno che faceva le rapine con un limone in bocca per alterare la fisionomia, e che, mentre era in carcere, ha conosciuto la moglie Santina (“non avevo l’occasione di conoscerla di presenza e così l’ho conosciuta d’assenza.


Ero un grande femminaro, poi ho incontrato lei e sono diventato diritto”). Con la figlia piccola, Simona, che a scuola non ci vuole andare. All’assistente sociale che le chiede se vuole comportarsi meglio l’anno prossimo risponde: “non so nemmeno se ci sono l’anno prossimo”, tenendo in conto e in misura anche il destino iniquo.
In “Sempre uniti” Costanza è riuscita a far cantare una sua canzone in siciliano (titolo “Vita angariata”) a Salvatore Bertolino, ed è soddisfatta dell’intrapresa.
“I palermitani di questo tipo amano solo la canzone napoletana. Alle feste cantano con pseudomini napoletani, hanno “la testa a Palermo e il cuore a Napoli” come diceva mio padre”. Dopo settimane di ascolti, spiegazioni, precisazioni Salvatore si è convinto, è entrato in studio e ha registrato il pezzo in dieci minuti, in siciliano. E’ il multiculti di parrocchia. (Bruno Giurato –Il Foglio)

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